Chi se ne va che male fa

“Chi se ne va che male fa”.

Così una nota canzone, re interpretata in modo commovente da Franco Battiato, riassume in un verso il dolore del distacco. Non importa se si tratta di un abbandono al termine di una storia d’amore, la partenza per una nuova vita in un altro continente, o il passaggio della morte. Colui che se ne va, fa male a chi resta. La consapevolezza che siamo tutti Uno, non va confusa credo con l’illusione che il distacco, nella sfera dei rapporti umani, possa non creare comunque dolore. Dolore senza alcun dubbio da non confondere con il dramma e la disperazione.

Parlo di questo partendo da uno spunto molto attuale della mia vita, essendo questi i giorni (o le settimane, o i mesi, chissà) in cui avverrà il passaggio della morte per mia madre, al termine di una lunga malattia alla quale si sta definitivamente arrendendo.

A differenza di quando morì mio padre, ormai oltre 15 anni fa e a causa di un male simile, sono stato adeguatamente preparato “mentalmente” a questo momento ormai imminente. Da anni so che è malata, da circa due anni so che non ci sono possibilità di guarigione. Aggravatasi ultimamente e ricoverata per le ultime cure, l’impeccabile sincronicità della vita mi ha dato tutte le informazioni per essere consapevole di ciò che sta per succedere.

In parallelo, la vita e la mia volontà negli ultimi 10 anni mi hanno portato ad approfondire le tematiche metafisiche (credo si fosse capito). Quindi effettivamente so molte cose per quanto riguarda la morte, i passaggi successivi, altre vite, altri mondi, dimensioni oltre la fisicità e rinascita in altre forme. Le letture, ma anche la meditazione e i miei contatti con le guide interiori, mi hanno fatto intuire e “sentire” quanto ricco e in realtà pieno di vita sia “l’altra parte del velo”, quanto l’assenza della fisicità, l’assenza di un corpo per la nostra coscienza sia, in realtà, lo stato naturale dell’esistenza. Una serie di incontri che mi hanno sempre portato a conoscere e a confrontarmi con persone “sensitive” che mi hanno raccontato molte percezioni su “ciò che non si vede”, mi hanno poi definitivamente convinto che ciò che vediamo nel mondo fenomenico sia solo la punta di un iceberg.

E va bene, queste sono le mie credenze, le espongo per attirare l’attenzione sul fatto che sono una persona che ha una certa confidenza, sia per esperienze che per conoscenza, col tema della morte. Ho avuto prove e ho sempre avuto fede. Insomma, teoricamente sarei una persona assolutamente preparata. Ma non vorrei ora affrontare le tematiche su cosa succede dopo la morte a chi muore, bensì su cosa succede dopo la morte a chi resta, tema che ha poco a che vedere con la metafisica (poco, non nulla), ma molto con le umane emozioni. Non so se sia una buona idea, ma vista una giornata di relativa calma dal trambusto organizzativo di ricoveri, assistenze mediche e analisi, proverò a esplorare questo mondo “ in diretta”, cioè non a cose fatte bensì mentre io stesso sto vivendo queste emozioni, mentre io stesso sto facendo un viaggio interiore per scoprirle (o meglio, riscoprirle ma con maggiore consapevolezza).

Quando morì mio padre, un gesto automatico che rimase per un po’ di tempo fu quello di cercare nella rubrica del mio cellulare il suo numero, per chiamarlo o inviargli un messaggio. Non che abbia mai cliccato sul tasto chiamata, mi fermavo prima, a volte mi fermavo semplicemente incantato a pensare, magari preso da un po’ di malinconia. Mi sembrava strano non tanto che non c’era fisicamente, quello poteva anche starci: era non poterci minimamente comunicare, a farmi soffrire in quel periodo. Ecco, però, quell’automatismo è rimasto per un po’. E in quel vecchio cellulare il suo numero è sempre rimasto in rubrica (ok, poi ho comprato uno smartphone, e sono pure andato avanti).

Nelle ultime settimane mi trovo un po’ “tirato” in due direzioni interiori diverse. Una è quella di difesa automatica, il pilota automatico emotivo che da una vita intera spesso cerca di prendere il sopravvento (e in passato ci è riuscito più di una volta): la dimensione non-emotiva di far finta di nulla, di ingannare la mente con altre distrazioni, nel mio caso videogiochi e cibo ricco di zuccheri sono una prima scelta. L’altra direzione è quella del dramma, dell’ansia, della preoccupazione, della reazione impulsiva. Queste due per lo meno sono le mie tendenziali reazioni al dolore, alla sfida della vita, al cambiamento in generale forse. Interiormente funziono così. Mi rallegro del fatto che con gli anni e col lavoro su me stesso, una terza via è emersa, ed è quella che nel momento più sfidante della vita cerco di evocare, almeno a intermittenza cerco di restare su quella frequenza. Sto parlando dell’osservazione delle emozioni e dei sentimenti che profondamente stanno cercando di scorrere. Naturalmente ci sono emozioni e pensieri spesso contrastanti relativamente alla morte di una persona cara. A volte mi trovo in un turbinio di pensieri che arrivano lontano, lontanissimo dal punto su cui cercavo di concentrarmi per osservare quello che sta succedendo dentro di me. Poi, e spesso questo avviene nelle meditazioni che faccio per entrare in contatto con le mie guide interiori, tra le quali ci sono anche le entità conosciute come Arcangeli, mi trovo a osservare da vicino il punto. Il dolore. E’ un calore nel centro del cuore, per quanto mi riguarda. Si tratta di un vortice di dolore in espansione dal centro del cuore, che lentamente avvolge tutto il petto. Fa male. Ma quando riesco a rimanerci focalizzato anche solo per alcuni minuti, poi l’effetto è ristoratore. So che vedere quel dolore, accettare di starci dentro e osservarlo per un po’, è anche la chiave per alleviare la sua intensità. Il mio obiettivo nel fare questo lavoro interiore è sempre quello di prendere maggiore consapevolezza dei miei processi emotivi per conoscere meglio me stesso ed evolvermi, ok, ma allo stesso tempo fare questo e vedere e sentire il dolore aiuta anche ad alleviare quel dolore stesso, quella tristezza relativa ad un così prossimo distacco. Credo sia un dolore fatto in realtà della stessa sostanza di un altro tipo di calore dal cuore: quello dell’amore incondizionato, quella sensazione che sentiamo quando amiamo in modo autentico, quando siamo connessi, quando contempliamo la natura e ci sentiamo semplicemente parte del tutto. Forse è solo il filtro dell’esperienza umana che ci presenta quella frequenza come dolore. E’ una sensazione comunque come di cuore che si espande. Io almeno lo sto interpretando così. Strano, non me l’aspettavo.

A volte negli ambienti new age, così come nello yoga, alcune persone o alcuni insegnamenti, travisati, tendono a proclamare che se sappiamo tante cose sulla morte, e se viviamo consapevoli di come la realtà fisica sia solo un ologramma, o meglio la punta di un iceberg dell’intero multi-verso, allora il dolore per la morte non ci “deve” preoccupare, non ha senso provare dolore, oppure se emerge tristezza quasi c’è “qualcosa che non va”. Da poco invece leggevo qualche pagina dal libro Le parabole di Kryon, e in un breve passaggio si parla di due genitori che perdono un figlio, e di come per quanto fossero consapevoli e molto spirituali, fosse naturale per loro provare molto dolore. Di come sapere ad esempio del loro contratto di vita con lui, del grande insegnamento interiore per l’anima dato da quell’evento difficile, non serva a non provare dolore.

Per quello che sto sentendo io, anche se siamo consapevoli e preparati, nulla può esimerci dal dolore del distacco, della sensazione di abbandono di quando una persona cara se ne va. Non c’è la disperazione della paura che scompaia e che la sua esistenza termini con la morte; quello è il dramma di altri, non il mio. Quella è la disperazione, perchè oltre al dolore che quella persona scompaia, la sua morte ci fa venire paura all’idea che in futuro toccherà a noi. Accettare la “vita” nella morte non è mai stato un mio tema di vita. Accettare l’emozione dolorosa di un distacco, invece, lo è stato. Magari altri riescono a stare nel centro del cuore, in quel mulinello di dolore del cuore, non rischiano di reprimerlo o di far finta di nulla, però provano anche una forte paura che con la morte finisca tutto. Io distinguerei questi due movimenti interiori.

La paura è un’inganno, è fittizzia, è una manipolazione della mente per creare separazione, e nella morte si aggancia per creare l’illusione più grande: che la persona che muore sarà “separata” per sempre da chi resta, anzi scomparendo in chissà quale oblio sia addirittura separata da se stessa, dalla sua stessa essenza, non ci sarà più alcuna sensazione di esistenza, non ci sarà più nulla.

Il dolore, invece, credo sia uno di quei sentimenti umani da abbracciare, da osservare, è parte di noi, non proviene dalla mente e dai suoi “scherzetti”: emerge dal cuore. E credo che solo nel cuore possa essere sentito, integrato, e infine guarito. Mi piace vedere il dolore del distacco della morte per chi rimane, come un arrivederci dato ad un amico immortale che parte per un lungo viaggio di esplorazione interstellare. Non sappiamo quali galassie visiterà, ma vedrà mondi meravigliosi, incontrerà creature incantevoli, si meraviglierà e riderà nella vastità del cosmo. Chi resta può rallegrarsi, e celebrare il viaggio dell’anima amica che parte. Non sa però quando la rivedrà. Sarà un’anima unita a chi resta da un sottile filo d’argento che connette i due cuori.

E quando il filo si tende, è inevitabile che il cuore faccia male. Ma è il segnale che il suo viaggio è iniziato, anzi che il suo viaggio continua.

E di questo, chi resta, può rallegrarsi.

E celebrare. Con dolore.

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