Sul ponte sventola bandiera bianca

 

Una delle sfide più spinose che possiamo incontrare sulla strada, spesso dissestata, che porta alla consapevolezza di come l’energia si muove nella nostra vita, è riuscire a relazionarci in maniera “neutra” alle cosiddette ingiustizie. Affrontare queste sfide con distacco, senza tentare di controllare la situazione e senza cercare di opporsi, non è certo facile. Tutto questo ha molto a che vedere con il nostro interpretare o meno un ruolo: quello della vittima. Non sto parlando di lasciarsi derubare di energia, gettarsi negli abusi o nella sottomissione a braccia aperte, tutt’altro. Mi sto riferendo a quei casi in cui la vita ci porta a “subire” oggettive ingiustizie ricorrenti, situazioni in cui senza che possiamo farci nulla, qualcun altro ci deruba di tempo, energia, o di veri e propri “beni materiali”.
Come al solito, se vogliamo andare in fondo alla questione, come ogni volta che proviamo a comprendere e a sciogliere un certo diremmo “karma”, una situazione ricorrente che consideriamo sgradevole, il primo passo è vederla. Anche solo per pensare di risolvere e lasciar andare le ingiustizie, è una nostra responsabilità in primis osservare che le subiamo. Avere il coraggio di osservare quando le persone o anche solo le circostanze intorno a noi, creano situazioni per cui noi finiamo regolarmente nel ruolo della vittima. Già questo passo non è semplice, ci è richiesto di mettere da parte una marea di bagaglio emotivo.
Orgoglio. Quello che ci dice che “a me non capita, io mi faccio rispettare”, o cose così, e via di negazione.
Affetto. Se i passanti, le comparse di poco conto che fanno fugaci apparizioni nella nostra vita hanno il potere di derubarci, sottometterci, raggirarci, stiamo pur certi che all’apice di questa catena alimentare energetica, c’è qualche predatore ben più vorace, un capovampiro a noi abbastanza vicino, tra i nostri affetti nonché legami karmici (che sia una persona del nostro presente o del nostro passato, poco importa). E questo si che è difficile da vedere, almeno in partenza.
Insomma il primo passo è riconoscere che stiamo deliberatamente interpretando un ruolo di vittima. Guardarci allo specchio e ammettere: “Si, mio caro. Tu ogni giorno indossi gli abiti di scena e sali sul palco, e con lo stesso vigore e trasporto con cui vorresti recitare la parte dell’umano libero, prendi parte alla stessa solita recita e impersoni un vecchio, familiare, comodo, magistralmente recitato, ruolo di vittima.
Quindi, vedere.


La seconda fase, secondo me, piace ancora meno, anzi è quasi inammissibile per molti. Lo so, lo so, è una medicina amara, e io per primo leggendo una frase del genere, inizierei a sospirare, pensando “ecco, ci risiamo…”. Ebbene si. Ci risiamo.
Accettazione.
La seconda e ultima fase, penso sia proprio questa. Accettare le ingiustizie. Attenzione, non gettarvisi a braccia aperte, eh no. Prima le abbiamo viste, quindi stiamo dando per assodato che ormai le abbiamo osservate, individuate, non siamo in una fase in cui “inconsciamente” ce le andiamo a cercare. No. Quella fase era precedente, faceva parte del “vedere”. Ora stiamo parlando delle ingiustizie “inevitabili”. Che so. Subire un furto. Essere raggirati o subire una truffa. Finire in carcere per qualcosa che non abbiamo fatto. Incappare insomma in situazioni, più o meno gravi, nelle quali pur vedendo che stiamo finendo dalla padella nella brace della vittima, non possiamo fare quello scatto per levarci dalla traiettoria dell’ennesima fregatura in arrivo. Può anche solo trattarsi di ripetuti imbrogli dai meccanici (che ovvimente cambiamo ogni volta che li sgamiamo) nelle riparazioni della macchina.
E molti diranno: non ci sto.

Ah giusto. Se subisco un furto, assumo un investigatore privato per rintracciare il ladro. Se il meccanico mi frega, se e quando me ne accorgo vado li e strillo per farmi ridare i soldi, fosse anche dopo un anno e senza uno straccio di prova. Se subisco una truffa, faccio una causa che dura 10 anni e che mi ricorda, a ogni comunicazione con l’avvocato, quanto sono una vittima. Ogni anno, per 10 o 20 anni, caso mai me lo scordassi.
Scatta il meccanismo che ci porta, come è umanamente comprensibile, a reagire. A opporci. A pensare che l’unico modo per svincolarci da questo ruolo, sia opporre una forza eguale e contraria nei confronti delle ingiustizie subite. Il problema è che la coscienza non funziona così. Reagire, opporci, denunciare, fare causa, vendicarci, assassinare gli oppressori, implica che stiamo, in realtà, solo alimentando quell’energia e quella messa in scena della vittima e del carnefice. Di truffato e truffatore. Di ladro e derubato. Tutto qui. Siamo nella stessa, medesima, consumata e ormai un po’ data, commedia. Da vittima passiva, stiamo solo passando al ruolo di una vittima reattiva. Sempre di ruolo di vittima si tratta. Reagire all’ingiustizia, opporsi, tentare con tutti i mezzi che ci vengono in mente di “ri avere” l’energia perduta (o il denaro, o il tempo), non fa altro che mantenerci in quel ruolo. Una vittima consapevole di ciò che subisce, magari. Ok, meglio di una vittima inconsapevole. Ma pur sempre una vittima. Il ruolo, la parte assegnataci dal nostro visionario regista interiore, non cambia.


Cercare con la forza di avere giustizia, non fa altro che sottolineare ciò che abbiamo subito. Mantiene in essere l’energia del conflitto. Non ci permette di distaccarci da quelle comparse e da quei protagonisti della nostra vita, che continuano a elargire ingiustizie e continueranno, perché reagendo, cercando di metterci una pezza, o cercando di esercitare grandi forze, alimentiamo quel gioco. Il gioco della vittima e del carnefice si alimenta anche della reazione delle vittime. L’energia della protesta, della “rivolta”. L’energia della causa legale contro chi si è approfittato di noi. La vibrazione del “pretendere giustizia ad ogni costo”.
Ad ogni costo. Tutto ciò, per quanto umanamente comprensibile, e da un certo punto di vista anche “moralmente lodevole”, ha davvero un costo. Un costo enorme. Le energie, le ansie, le forze, i soldi investiti nel reagire, oltre a prosciugare le nostre riserve e magari il nostro portafogli, e oltre a non garantire un successo (che sarebbe comunque momentaneo), vanno in realtà ad alimentare proprio quella dinamica karmica, energetica, chiamiamola come ci pare, che inviterà in tempi brevi un’altra messinscena uguale alla precedente. Come tra bambini, che non si stancano mai dello stesso gioco.
“Si! Ci siamo divertiti! A cosa giochiamo domani? Ai pirati? Ai banditi? Alla truffa bancaria? Alla coinquilina parassita? Ai parenti/serpenti?”
Insomma. Chi più ne ha, più reagisca, e più ne metta!
Oppure.

Possiamo contemplare l’opzione che più ci sembra assurda. L’opzione socialmente più disprezzata. La resa.
Arrenderci. Ok, mi hai fregato, non posso oppormi dunque te lo lascio fare. Fai pure. Nutriti di quella che tu ritieni essere un’energia limitata, e quindi da conservare, e da rubare al prossimo, ma che io ritengo essere un’energia infinita. Ok, oggi ti sei nutrito di me, ma l’universo è un calderone di energia e possibilità e opportunità e coincidenze e denaro infiniti, tranquillo, attingo da lì. E domani, quando interpreterò il ruolo dell’essere umano libero, non potrai nutrirti di me, perché nemmeno mi riconoscerai, nemmeno vedrai in me una potenziale vittima.
E nel momento in cui smettiamo di opporci, smettiamo di prendere parte alla commedia. Cambiamo proprio compagnia teatrale. Cambiamo ruolo!
Il ruolo dell’umano libero, capace di attingere al serbatoio energetico del cosmo, senza più paura di essere derubato. Senza la necessità di difendersi, semplicemente perché i furti e le ingiustizie, non gli capitano più.
Del resto, con tutte le navi che ci sono in giro per gli oceani, cariche d’oro e di paura, cariche di vittime inermi o di vittime agguerrite, armate fino ai denti di cannoni e cause legali e litigi familiari, quale pirata si divertirebbe ad abbordare e saccheggiare un pacifico veliero, sul cui ponte sventola bandiera bianca?

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