Oltre il bisogno di approvazione

Voler piacere a tutti. Chi non è mai cascato in questa trappola psicologica ed energetica?

Personalmente per anni, in molte delle situazioni sociali in cui mi sono trovato, dai gruppi di amici alle situazioni di lavoro, o di formazione, questo è sempre stato un mio nervo scoperto.

Ricordo che mi sforzavo di essere divertente, di parlare di argomenti condivisibili dalle persone da cui ero circondato. Mi sono obbligato per gran parte del corso della mia vita a praticare troppo spesso attività che praticamente detestavo, per motivi che al tempo non mi erano chiari, ma che con gli anni ho imparato a comprendere. Meccanismi inconsci che tutti abbiamo, comportamenti forzati al fine di ottenere, in fondo, solo una cosa: affetto. Affetto che, speravo, si manifestasse in approvazione, in apprezzamento delle mie qualità, in incoraggiamento. Inutile specificare quanto cercare di essere qualcuno che non sei porti grande frustrazione, ma sopratutto affetto solo con il conta gocce. Già da vari anni mi sono liberato di gran parte di questi fardelli, ma sono stati un’utilissima scuola per comprendere come l’apprezzamento di sé possiamo trovarlo stabilmente solo in una persona: noi stessi. A volte però capita di ripensarci, a volte si rivedono anche solo di sfuggita persone del nostro passato, e tornano quelle sgradevoli emozioni e sensazioni, per lo meno il loro ricordo, che poi è la stessa cosa. La sensazione di essere rifiutati, emarginati, presi poco sul serio. La sensazione che provavi a quel tempo quando il tuo parere era regolarmente cestinato come “irrilevante”, le tue opinioni quasi nemmeno valutate.

Tutti quelli che hanno passato una sfida del genere e in qualche maniera sono andati oltre, possono riguardarla con maggiore distacco, e provare compassione e amore incondizionato per sé stessi, magari pensando “ehi, mi sono scelto un percorso ad ostacoli ma ora sono in grado di saltare molto in alto!”. Tutti quelli che si sentono o si sono sentiti in qualche modo diversi, con punti di vista un po’ al di fuori del “socialmente accettato”, con interessi e passioni “aliene” rispetto al contesto sociale in cui si trovano (può essere il contesto del gruppo di amici, della palestra che si frequenta, del paese dove si vive o dell’ambiente di lavoro), sanno a cosa mi riferisco. Poi ognuno reagisce a suo modo, ma nel mio caso ho spesso cercato di appiattire la mia personalità, levigare le mie passioni, ingabbiare il mio tempo libero al fine di cercare quell’affetto perduto. Ricercarlo in chi non me lo avrebbe mai potuto dare.

Mi sono trovato, paradossalmente, a cercare di essere molto accomodante e gentile ed empatico, proprio con quegli attori del mio dramma che maggiormente mi perseguitavano, mi criticavano o semplicemente avevano una profonda antipatia per me. Ed era come se ci fosse una molla dentro di me che resettava la soglia di sopportazione, che cancellava i dati raccolti dall’esperienza, e mi faceva rimanere stazionario, fermo in quelle situazioni e, come un cane che anche se percosso cerca sempre l’affetto del suo padrone, tornavo dal più ostile di turno per provare a ricercare affetto o almeno un barlume di approvazione anche da quella fonte. Era come se non potessi accettare che qualcuno mi detestava. O meglio non riuscivo ad accettare l’aperta ostilità e i comportamenti sgradevoli; io per primo ho incontrato persone nella mia vita che non mi andavano a genio. Solo che la mia tendenza è sempre stata di “dare a tutti una possibilità”, o se proprio con qualcuno non avevo nulla di che spartire, lasciarlo in pace senza infastidirlo. Si sa, tutto questo genera rabbia e frustrazione.

Come risolverla. Come lasciarla andare. Metodi ce ne sono tanti, e tanti ne ho provato. Alla fine credo che qualcosa abbia funzionato, e la conseguenza è che ho imparato a lasciar andare ciò che non mi risuona, e chi non mi apprezza. Col tempo e con l’esperienza, con la consapevolezza e l’auto osservazione, si impara a filtrare tutti coloro che sono portatori di una qualche tossicità.

Credo che alla fine queste situazioni, che erano ricorrenti, in primo luogo smettono di infastidirci, nel momento in cui iniziamo ad allontanarcene o comunque, inzialmente in attesa di riuscire a staccarci del tutto, smettiamo di reagire. E per reagire intendo sia una reazione di accondiscendenza come quelle che avevo io, cercando di fare qualcosa per piacere di più a quelli che non ci apprezzano, sia reazioni di aggressività.

E in secondo luogo smettono di accaderci.

Non è facile lasciar andare situazioni, persone, ambienti in cui magari oltre all’ostilità c’erano anche alcune persone che invece ci apprezzavano, e che magari a loro volta venivano influenzate ed energeticamente derubate da quelle dinamiche, e da alcuni vampiri di energia particolarmente voraci. Se coloro che invece l’affetto ce lo davano decidono di restare nella trappola, e per questo motivo, per far contenti altri, restano nella vecchia energia e quindi in qualche modo si fanno risucchiare, sarà inevitabile lasciar andare anche loro. Pena: restare anche noi stessi nella trappola del voler piacere ad ogni costo, del forzarsi di essere qualcuno che non siamo, con tutte le conseguenze energetiche, psicologiche e fisiologiche del caso.

Senza alcun dubbio, prima o dopo, la strada verso la liberazione dal giudizio altrui e dalla continua ricerca dell’approvazione del prossimo, passa attraverso periodi di solitudine.

Fare un reset delle proprie frequenze vuol dire che si passa in un punto dove ci siamo sganciati da situazioni paludose, inutili da forzare, che non possono più risuonare con noi, e ci stiamo aprendo a una nuova risonanza con persone, situazioni e ambienti maggiormente appropriati. E affinchè questo nuovo aggancio di frequenza in sintonia con la nostra autenticità si manifesti, ci è richiesta pazienza, quell’attesa che il meccanismo della co-creazione della realtà sempre richiede. E se accettiamo di essere pazienti, se accettiamo la solitudine, abbracciamo quel Io Sono in divenire, con la consapevolezza nel cuore che altri esseri umani attendono di iniziare nuovi percorsi di vita, di scambio e di co-creazione con noi, allora quella solitudine sarà risanatrice, curativa, sacra.

Fare spazio al nuovo significa sempre che nel momento in cui invito il vecchio gentilmente ad uscire, ci sarà una stanza vuota per un po’ di tempo. Sarà riempita e svuotata ancora, e ancora, ciclicamente. E’ inevitabile.

E per far pace interiormente con chi viene e con chi va, credo che riconoscere in loro degli insegnanti di luce a prescindere dal loro ruolo più o meno gradevole interpretato nel nostro dramma, sia la chiave per lasciar andare anche ogni emozione che ristagna, che non scorre, relativa a situazioni e persone del nostro passato.

 

 

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